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Guardare a sé stessi con Self-compassion

Siamo abituati a sentir parlare d’emozioni. Lo fanno un po’ tutti nella convinzione che, visto che tutti noi proviamo emozioni tutti abbiamo qualcosa da dire a riguardo. Verissimo. però mettere un po’ d’ordine non fa mai male, oltre al fatto che ci aiuta a capire meglio tutte le informazioni emotive che circolano dentro di noi e fuori di noi.

Sappiamo, grazie ad Inside out – il film della Pixar con la supervisione di uno scienziato delle emozioni come Paul Ekman – che proviamo diverse emozioni fin dalla nascita. Tendiamo però a considerare le singole emozioni come se ne provassimo una per volta. Questo non è proprio corretto. le emozioni si muovono a sciami: c’è l’ape regina, e le api operaie. la loro forza è costituita dal sistema e dalla ricerca delle risorse. infatti uno dei nostri sistemi emotivi è proprio il sistema di ricerca delle risorse di cui ti parlerò oggi. In un sistema emotivo ci sono diverse emozioni che sono l’una suscitata e collegata all’altra in diverse percentuali.

Il sistema di ricerca delle risorse

Tutti noi possiamo fare una semplice constatazione: quando lavoriamo ad un progetto che ci piace possiamo essere molto motivati. Tanto motivati da dimenticarci tutto il resto, incluso tornare a casa in un orario decente per passare del tempo con le persone che amiamo. Oppure, se lavoriamo da casa, possiamo essere in una specie di bolla spazio-temporale. Quando scrivo, per esempio, divento una specie di orso polare: coperta da strati di maglioni per combattere il freddo legato al rimanere ferma, socievole quanto un orso e soprattutto, se qualcuno mi interrompe con domande del tutto inutili – dal mio punto di vista – tipo, “Cosa mangiamo stasera?” altrettanto capace di grugniti aggressivi. Più o meno funzioniamo tutti così quando entriamo nel magico mondo delle cose che ci interessano e che esprimono la nostra creatività, realizzano la nostra curiosità e ci permettono di portare a casa qualcosa che riteniamo significativo. (E la curiosità è una delle emozioni di questo sistema emotivo).

Un po’ d’egoismo

In quest’area possiamo mostrare più coinvolgimento nei confronti di un collega che condivide lo stesso interesse che nei confronti della persona che amiamo. Non è un tradimento intellettuale: è proprio un effetto del nostro sistema di ricerca delle risorse che tende a mettere – un po’ egoisticamente – in primo piano i nostri interessi. Tante relazioni affettive muoiono sull’altare delle emozioni di questo sistema. Se entriamo in competizione e pronunciamo la fatidica frase – sempre foriera di sventura – o me o il lavoro, rischiamo di perdere amaramente. Mai entrare in competizione con un sistema che regna proprio nell’area della competizione. (La competitività, l’invidia e la gelosia professionale sono altre emozioni di questo sistema emotivo)
Questo sistema emotivo è confinante con il sistema difensivo di cui utilizza molte caratteristiche. La rabbia può trasformarsi in determinazione, l’ansia in produttività, la paura in controllo e pianificazione. Questo è quello che accade quando le cose vanno bene perché quando il nostro sistema di ricerca delle risorse è troppo forte può davvero arrivare a escludere la nostra vita affettiva.

La rabbia nei nostri confronti

Un fallimento o una difficoltà in questo sistema si traduce con un attacco a noi stessi. Con danni non indifferenti. Quando questo sistema è troppo attivo diventiamo il bersaglio della nostra aggressività: per stimolarci a fare di più, meglio e a raggiungere risultati più soddisfacenti. Se poi abbiamo fallito possiamo provare vergogna, senso di indegnità, tristezza, autocritica in modo continuativo visto che viviamo tutto il giorno con noi stessi.
Lo facciamo per spronarci, per “metterci al sicuro”, ma spesso, alla fine, in questa continua sfida con noi stessi non abbiamo un tempo sufficiente di recupero o di soddisfazione. Paradossalmente, può essere molto più soddisfatta del proprio lavoro una persona meno ambiziosa e motivata che una molto ambiziosa e molto motivata, malgrado i risultati siano comparabilmente diversi.
Io la chiamo “la malattia degli standard elevati” o depressione perfezionistica. Nascono entrambe da un sistema di aspettative nei confronti di sé stessi troppo esigenti. Affligge le persone più dotate e mette un seme di autocritica e insoddisfazione in tutto.

Gli standard elevati

Sono persone che hanno sempre in mente un obiettivo di miglioramento: ho fatto 100? Il prossimo anno 120, pensando segretamente che se fosse 130 sarebbero contenti ma, alla fine non è così. Perché è una spirale dalla quale è possibile uscire solo con un impegno intenzionale, cercando di prendere la dovuta distanza da una spinta ambiziosa eccessiva che promette di assicurarci il paradiso e ci fa vivere all’inferno.
La depressione perfezionistica non è meno gravosa della depressione primaria. Sono persone per le quali la depressione viene alimentata dal chiedersi sempre di più. Se la depressione primaria richiede un tempo di elaborazione del lutto e di cura compassionevole, la depressione perfezionistica richiede self compassion, un sentimento che non siamo abituati a coltivare.

Il rilevatore di discrepanza

Questo sistema è retto dal nostro rilevatore di discrepanza, ossia quel criterio di valutazione che ci fa misurare la distanza tra dove siamo e dove vorremmo essere. È una specie di interruttore che rileva quanta distanza c’è tra le nostre aspettative e la realtà. Se diamo spazio all’esplorazione e all’accettazione possiamo evitare che il passaggio successivo sia una correzione. Questo facilita il cambiamento: lo rende più radicato nell’ampio panorama del presente anziché nella ristrettezza della nostra volontà di andare in una direzione precisa. Il rilevatore di discrepanza è l’arma di base dell’autocritica. Ci convince che se “pedaliamo” arriveremo ma non ci fa smettere di pedalare, perché mantiene quella distanza fissa: non arriviamo mai se non facciamo uno sforzo intenzionale: scegliere di atterrare nel presente e nella sua realtà.
Cosa vuol dire che il rilevatore di discrepanza è a distanza fissa? Vuol dire che anche quando raggiungiamo un obiettivo, contrae il tempo di soddisfazione per essere arrivati al punto desiderato e ci fa immediatamente vedere il passaggio successivo.
Come disattivarlo? A volte sono gli eventi della vita che lo fanno spegnere improvvisamente. Eventi che ci catapultano, con la loro gravità, nel presente. Una malattia nostra o di chi amiamo, un lutto, un improvviso insuccesso professionale ci fanno bruscamente fermare. E riconsiderare in modo radicale il nostro modo di funzionare.

La differenza tra autostima e self compassion

La nostra cultura sostiene fortemente l’impegno individuale. A questo va aggiunto un cambiamento radicale del mercato del lavoro che ha reso molte attività professionali incerte e instabili. Bisogna farsi da soli, avere un sogno e lottare, quotidianamente, per raggiungere quello che una volta era garantito da un impiego a tempo indeterminato. Diventiamo così il capo di noi stessi e quindi, quando ci arrabbiamo per i risultati ottenuti, non ci arrabbiamo con un capo esterno, ma apriamo una lotta intestina.
Coltiviamo una logica efficiente che tende a contrarre al minimo qualsiasi senso di compassione per le difficoltà, l’errore o il fallimento. La pressione che esercitano su di noi queste spinte al miglioramento è grandissima e ha un primo effetto: la perdita rapida del sentimento di compassione nei confronti di noi stessi. Il perché è evidente: ci renderebbe meno efficienti. E l’aumento dell’autostima legata alle situazioni di successo.L’autostima inoltre ha un profondo effetto collaterale: attiva la nostra modalità del fare, quella modalità – fatta di performance e obiettivi – che ci serve per raggiungere un risultato definito.
Questa modalità è collegata al rilevatore di discrepanza di cui ti parlavo poco sopra, di perfetto utilizzo nella logica dell’autostima. Il rilevatore di discrepanza ci permette di verificare la distanza tra dove siamo e dove vorremmo essere. Se questa distanza supera una soglia significativa attiviamo una serie di azioni e soluzioni per compensare il divario. Applicare il rilevatore di discrepanza alle nostre emozioni significa attivare un processo di ruminazione che non può che portare a sentirci sbagliati: non perché siamo sbagliati ma perché pretendiamo di ottenere un risultato perfetto e, in più, con uno strumento sbagliato.

Il contatto con Sé

Le emozioni hanno bisogno di tempo, spazio, consapevolezza, disordine e ordine, caos e struttura, fluidità e contenimento: tutte qualità che appartengono al dominio del contatto con il Sé – alla modalità dell’essere – e non al dominio dell’azione, la modalità del fare. È’ in questa dimensione, semplicemente umana, che possiamo veder sorgere il sentimento della compassione, che altro non è che il riconoscimento della nostra comune umanità, il riconoscimento della nostra più autentica intenzione, che ha un valore di gran lunga superiore al nostro risultato atteso. Quando attiviamo la modalità del fare disattiviamo la modalità dell’essere perché sono due registri autoescludentisi: se funziona l’uno, l’altro riduce la sua attività. Abbiamo bisogno di entrambi: è necessario utilizzarli per le azioni appropriate. Negli interventi basati sulla mindfulness – ossia nei diversi protocolli mindfulness – riattiviamo la compassione semplicemente perché ridiamo spazio alla modalità dell’essere. Allora è come ridare acqua ad una pianta: le sue foglie riprendono lucidità e turgore, noi riacquistiamo vitalità e speranza corporea, la capacità di confidare nelle emozioni riflessive, quelle emozioni che nascono dentro di noi e si rivolgono all’esterno proprio come le piante che cercano la luce per orientare la loro crescita.

La depressione perfezionistica

La depressione perfezionistica nasce dall’incessante rovello di non essere abbastanza e di non fare abbastanza. È una depressione resistente ai farmaci perché non è legata ad una carenza di serotonina: è legata ad una profonda incapacità a darsi amore e rispetto, al di là dei propri risultati. Perché il semplice fatto di essere meravigliosamente umani non sembra sufficiente a dare il diritto di esistere così come siamo.

Se sviluppiamo uno stile di auto-critica stimoliamo costantemente il nostro sistema difensivo e, comprensibilmente, ci sentiremo sempre sotto minaccia. L’autocritica stimola il sistema della minaccia. Paul Gilbert

Guardare a sé stessi con self compassion

La compassione e la self compassion – che è provare compassione verso sé stessi – sono emozioni lente, che nascono dalla nostra disponibilità a farsi toccare dal dolore e dalla tristezza. Se fuggiamo da queste emozioni perché ne abbiamo paura o ci fanno sentire falliti, saremo meno capaci di essere compassionevoli. Non si tratta di ristagnare nella tristezza o nel dolore: riconosciamole quando sono presenti e lasciamole fluire senza cristallizzarle con i nostri pensieri rimuginativi. Non riusciremo a sentire self compassion o compassione se abbiamo fretta, soprattutto non serve avere fretta di stare meglio. È utile fare qualcosa di costruttivo per stare meglio e raramente la fretta è costruttiva.
Provare self – compassion significa provare affetto per le proprie difficoltà e provare compassione significa provare un’attenzione affettuosa per le difficoltà degli altri. Significa riconoscere che i nostri risultati non dipendono solo da noi e dal nostro impegno.

Se l’autostima e la logica performativa gonfiano il nostro Io e il nostro senso dei confini e del valore personale, la compassione e la modalità dell’essere li fanno sgonfiare per accrescere il senso di un sé condiviso e interdipendente con tutte le persone, indipendentemente dai risultati. Accrescere il Sé significa dare valore a quelle emozioni essenziali e a quella cura primaria centrale per ogni essere umano: significa muoversi nella direzione dell’essere pienamente umani, prima ancora che pienamente di successo. E questo non esclude – come molti temono la possibilità di raggiungere il successo.

La mente che paragona – o comparing mind – è una mente attivata dalla competizione e invidia,anche queste e ozioni tipiche nel sistema di ricerca delle risorse. Come la mente di povertà – che vede quello che manca anziché quello che è presente – può spingerci ad esagerare. Ad esagerare nell’attivismo, a ridurre eccessivamente gli aspetti contemplativi e di soddisfazione.
Ho iniziato a parlare delle emozioni del sistema di ricerca delle risorse a partire dalla self – compassion perché è solo se riusciamo a provare compassione nei confronti di noi stessi che sapremo equilibrare la spinta verso il successo motivata dalla curiosità e dalla ricerca di soddisfazione con l’autocritica, l’invidia e l’eccessiva competizione.

Cambiare il rapporto con il dolore

Il dolore è una componente inevitabile dell’esperienza umana: non è solo un danno. Spesso è anche un segnale e una informazione importante. Il problema è il rapporto con il dolore e, soprattutto, il processo cognitivo che accompagna la sensazione stessa. Quando proviamo dolore è molto facile che emergano le etichette cognitive di “male”, “sbagliato”, “pericolo”: sono reazioni di allarme su base fisiologica e hanno una funzione protettiva. Non sempre il dolore va cancellato: a volte ci aiuta a comprendere meglio noi stessi e il mondo. Nel sistema di ricerca delle risorse il dolore si accompagna alla frustrazione e alla tristezza.
Spesso associamo il dolore alla sensazione che durerà per sempre mentre invece il dolore è, come tutte le sensazioni, una esperienza impermanente anche quando si tratta di dolore cronico. Se guardiamo al dolore e alla frustrazione nelle sue diverse componenti, percettive, emotive e cognitive, esplorandolo e non soltanto reagendo, possiamo veder fiorire la compassione proprio come abbiamo visto fiorire i primi bulbi nel nostro giardino. La compassione incoraggia ad affrontare tutte le esperienze con gentilezza e apertura, quella gentilezza ed apertura che sono ingredienti fondamentali di qualsiasi sincero processo di auto – esplorazione e auto-guarigione

Solo ciò che avviene ora avverrà poi. Se non esistono compassione, consapevolezza ed equanimità ora, nell’unico momento in cui possiamo usufruirne e nutrirci, quante probabilità vi sono che appaiano in seguito, in condizioni di stress o difficoltà? Jon Kabat Zinn

 

©Nicoletta Cinotti 2022. Un estratto da “Mindfulness ed emozioni”

https://bit.ly/MindfulnessEdEmozioni

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